A CHI APRE LA PAGINA
«SUICIDIO E PREGHIERA»
La domanda che il visitatore di un sito dedicato a Pietro da Morrone si farà è “cosa c’entra una densissima e lunga riflessione su SUICIDIO E PREGHIERA in questo contesto, destinato alla vita monastica ed eremitica, partendo dalla memoria forte e carismatica di fra’ Pietro?”.
I curatori del sito sono e saranno sempre molto attenti ad evitare divagazioni sul tema e pertanto il testo che sottoponiamo all’attenzione dei lettori è un complemento alla comprensione e attualizzazione della “grande anima” Pietro Angelerio.
Due sono soprattutto i motivi che ci hanno spinto a proporvi queste pagine impegnative ma molto significative.
1.
Sono state scritte circa 60 anni fa da Giuseppe Capograssi, un giurista famoso il quale si è però sempre interrogato sul senso della vita che lo ha indotto a scrivere il ponderoso volume La vita etica, da cui abbiamo tratto queste osservazioni da lui stesso intitolate SUICIDIO E PREGHIERA.
Capograssi è nato ed ha trascorso alcuni tratti della sua esistenza a Sulmona, una terra abitata e attraversata fisicamente da fra’ Pietro e dalla quale l’Autore ha potuto guardare e frequentare quel luogo semplice e ricolmo di mistero che è l’eremo di S. Onofrio, dove il monaco Pietro ha trascorso un lungo tratto della sua vita.
2.
I temi trattati in questa sua opera riguardano strettamente il pensiero e le scelte esistenziali di fra’ Pietro.
Quando Capograssi parla di SUICIDIO non intende l’atto supremo del togliersi la vita, ma piuttosto l’esercizio di annientarla giorno dopo giorno nello stordimento, in quello che egli chiama ripetutamente “divertimento”, quell’atteggiamento che ci porta “fuori da noi stessi”, dove non c’è posto né per pensare, né per sognare, né per sentirsi vivere.
«Il segreto per contentarsi del sistema di divertimenti – scrive Giuseppe Capograssi – è di viverli nell’azione senza svegliarsi… Ma vi sono individui che si svegliano. Che riescono a gettare su questa vita di divertimenti il lucido sguardo dell’intelligenza… Spiriti incapaci di alcuna illusione, hanno visto come in un lampo quello che portava in sé quella filosofia o religione che si manifestava e si realizzava nel sistema dei divertimenti…».
Fra’ Pietro da Morrone è, secondo noi, uno di questi spiriti, di questi grandi uomini che hanno capito l’inganno dei divertimenti posti sul nostro cammino.
L’altro riferimento diretto a fra’ Pietro è – in questo testo di Capograssi – la stupenda pagina sulla PREGHIERA: «La preghiera è un atto, un silenzio, un’estasi, uno stare in croce, un senso profondo di pace, un senso profondo di amarezza, un darsi a tutti, un espiare per tutti, uno stare in se stesso e sentire Dio che parla o un chiedere che Dio parli, un repentino accorgerci di Dio nascosto, un tacito abbandonarci a Lui, un tacito offrirGli il povero dono di momenti di dolore. La preghiera è tutte queste cose insieme o ciascuna di queste cose…».
Difficilmente ci è accaduto di leggere o ascoltare parole così pertinenti all’esercizio difficile della preghiera. Per di più di un laico non addetto ai lavori. Per questo ci piace accostarle all’esperienza quotidiana della vita di fra’ Pietro da Morrone.
Buona lettura, allora, riga dopo riga, pagina dopo pagina di questo testo inusuale ma che può illuminare gli aspetti fondamentali della vita di fra’ Pietro.
E fornire un raggio di luce anche alla nostra.
SUICIDIO E PREGHIERA
(tratto da: Giuseppe Capograssi, La vita etica,
Bompiani, Milano 2008, pp. LV + 1340.
Il brano che riportiamo è alle pp. 176-216)
1.
Il fatto fondamentale della storia dell’individuo è che l’individuo dispera del finito e chiede aiuto. È un fatto, che si trova tra gli altri fatti della vita, e che si riesca o non si riesca a spiegare, bisogna registrare. L’uomo chiede aiuto, esce dal finito per chiedere aiuto. Vico ha visto questo fatto definitivo: «l’uomo caduto nella disperazione di tutti i soccorsi della natura, desidera una cosa superiore che lo sorregga; una cosa superiore alla natura è Iddio; e questi è il lume che Dio ha sparso sopra tutti gli uomini». Il momento decisivo è il momento della disperazione del finito che Vico ha colto con la più profonda delle intuizioni.
Disperare del finito! Se si potesse dire, è questo forse il mistero più misterioso. Significa: sperare nel finito; sperare che cosa? sperare di potere essere soccorso in tutti i mali che ho, in tutti i beni che non ho, in tutti i pericoli di morte che mi circondano. Speravo ma non spero più. Dispero. Ma il singolare e il fatto centrale della storia della vita, è che l’animo umano dispera, ma non dispera assolutamente, dispera solo del finito. Già sperare nel finito era un non acquietarsi del finito, uno sperare che i limiti che compongono il finito si dissipassero, cioè che il finito non fosse finito. Un atto contraddittorio e inadeguato: Spinoza lo ha detto, che ha con perfetta coerenza condannata la speranza. L’uomo fa questo atto incoerente di sperare nel finito, il quale atto significa disperare del finito. Ma disperare del finito significa, per paradossale che la cosa possa parere, sperare in qualche cosa che supera il finito. Disperare del finito è il riconoscersi che fa l’uomo impotente a salvarsi, ed insieme sperare di salvarsi, chiedendo aiuto a chi è superiore al finito.
Un poeta dell’800, mirabile nella crudele arte di mettere a nudo il suo cuore, cioè il cuore dell’uomo, scrivendo alla madre in una assoluta intimità di spirito (purtroppo, e per fortuna, violata dalla pubblicazione delle lettere) ha raccontato così un suo tragico momento. «In questo orribile stato d’animo, impotenza e ipocondria, mi rivenne l’idea del suicidio; posso dirlo adesso che mi è passata; a ogni ora del giorno tale idea mi perseguitava. Vedevo in essa la liberazione assoluta, la liberazione di tutto. Nello stesso tempo, e durante tre mesi per una singolare contraddizione, ma soltanto apparente, ho pregato a ogni ora (chi? quale essere definito? Non ne so assolutamente nulla) per ottenere due cose: per me la forza di vivere e per te lunghi anni».
Qui l’animo umano si coglie nel momento supremo della disperazione e della speranza veramente a nudo: suicidio e preghiera. Qui nella storia dell’individuo appare in termini episodici e psicologici (ma solo apparenti, perché qui appare la sostanza metafisica dell’animo umano) il momento della disperazione e del grido di aiuto, che Vico ha colto nella storia dei popoli. C’è il momento supremo del suicidio, il veramente disperare, il giudizio che non c’è più nulla da fare nel finito, che è finita col finito. Ma questo momento coincide col momento della preghiera, cioè col momento della speranza. Tale contraddizione è costitutiva dell’animo umano e quasi si direbbe l’atto di pensiero col quale l’animo umano si orienta più potentemente e più profondamente, nell’oscuro mondo dell’essere e del divenire nel quale si trova immerso. Il momento della disperazione è il momento della più perfetta chiaroveggenza dell’uomo sulla vita; del più profondo e più preciso giudizio che l’animo umano fa della vita finita. Questo momento di chiaroveggenza sulla disperata avventura umana è il momento del grido a Dio, che supera il finito e che può salvare dal finito. Come la disperazione è atto di perfetta intelligenza, così il grido è atto di perfetta intuizione. Finito e, si osa dire, infinito sono giudicati. Tutto per enigma; ma è qui, in questo momento del suicidio e della preghiera, che Baudelaire coglie nella sua unità contraddittoria e vitale (con una testimonianza che ha tanto più valore in quanto non è dello scrittore, ma dell’uomo in un momento di assoluta sincerità e intimità) è tutto il destino dell’uomo che viene illuminato. L’anima umana, che culmina nel bisogno della liberazione assoluta, della liberazione da tutto, che non può soddisfare, e che perciò si raccoglie nell’idea del suicidio; e nello stesso tempo l’animo umano che chiede aiuto, e non sa assolutamente a chi, e questo non sapere è tuttavia chiedere aiuto, è tutto il mistero della vita in questo momento; cioè che spera proprio la liberazione nel momento stesso in cui dispera della liberazione. Profondamente il poeta dice apparente la contraddizione; perché appunto il chiedere aiuto sta già in quel disperare della vita finita. Appare qui l’uomo nella sua puntuale, inconfondibile individualità: l’uomo come l’unico essere della creazione, che dispera del finito, e nell’atto che dispera spera in Dio.
Se tutto questo non si trovasse nell’esperienza, se non si constatasse nel fatto, chi avrebbe potuto immaginarlo? Ma quello che è più singolare è proprio l’apparire inaspettato di questo quid misterioso, misteriosamente superiore al finito, che si chiama Dio, e che non è un concetto che l’anima ragionante trova, ma un quid vivo; anzi il più vivo che ci sia, di tale ricchezza di vita, che il vivente con parole, con atti, con desideri e perfino e soprattutto tacendo gli chiede aiuto per vivere.
Non sa che cosa è (Baudelaire lo ha profondamente notato) nell’atto in cui gli si rivolge, ma intanto si rivolge, grida, chiede come alla persona più presente. È un fatto che sembrerebbe impossibile, se non si trovasse nella più comune esperienza.
Appare Dio, come se già fosse apparso. L’invocazione a Dio non viene a scoprire nulla di nuovo; è invocazione a chi già c’è, a chi già è presente. In quel momento di morte, l’uomo si volge a Dio, come se già si fosse rivolto a lui, come se si rivolgesse a lui non con un primo ma con un secondo atto, come se prima di invocarlo, fosse da lui già conosciuto. La misteriosa presenza a cui si rivolge, gli ritorna nell’animo sofferente ed amante come un ricordo che risale da un lontano oblio. L’individuo si ricorda di Dio. Quest’atto di fede in Dio, dal quale nasce il grido di aiuto è, nell’anima amante e sofferente dell’individuo, preso dalla disperazione del finito, già per se stesso Dio presente. Il grido col quale l’individuo chiama di là dal finito Dio in aiuto, è già per se stesso l’aiuto che Dio comincia a dare all’individuo; Dio che prende l’iniziativa della salvezza. Questo grido di aiuto, questo desiderio di Dio è la risposta che Dio dà prima ancora della chiamata; è il dono col quale corona, per così dire, con la sua assoluta iniziativa di misericordia la storia della vita, mettendo nella vita finita il desiderio della salvezza, cioè di se stesso. Dono, la vita con i suoi desideri impossibili e le sue volontà infinite, e dono la forza inestinguibile e insostituibile del grido a Dio.
La presenza di Dio sposta per così dire i segni di tutte le cose: in questa prospettiva infinita le cose diventano stranamente composte di ombre e di realtà, di niente e di essere; il loro esserci o non esserci, il loro cominciare e divenire e sparire; il loro accendersi e spegnersi, la trama del tempo che il loro seguir si disegna sono il serio poema del poeta infinito che ha creato il mondo delle cose e della vita per portarlo fino a se stesso. In questa prospettiva infinita il mondo delle cose e della vita, la vita stessa di ogni vivente trova la sua verità, cioè il suo significato e in questa verità la sua legge. Tutti i molteplici disconoscimenti che l’uomo fa della vita dei viventi, il male che l’uomo fa all’altro uomo e il dolore che dà alle altre creature, acquistano anch’esse una prospettiva infinita, diventano un sottrarsi allo slancio stesso della creazione, un non volere, un tentar di distruggere la creazione di Dio. Ed in sostanza tutte le negazioni della vita, gli attentati della superbia, le omissioni della debolezza, le complicità della paura diventano oramai un tentativo di sopprimere la presenza infinita, di scompaginare l’ordine stesso della creazione; perdono il proprio limite, si inseriscono nella trama della vita con la pretesa di dissociare la struttura stessa della vita, di rendere negativa la vita stessa.
Tutti i doveri dell’individuo si condensano nel semplice e terribile dovere di tener fede a questa verità e a questo significato della propria vita e della vita, di collaborare a questa infinita poesia che si svolge; e quasi si direbbe in una parola, di esser degno dell’alto fine a cui è destinato.
Ma a questo dovere, cioè a questo fine, l’individuo, con la più tragica delle constatazioni, deve riconoscere che è impotente. Esser degno! ma c’è il male, cioè il seguire un’altra legge, il non volere questo fine. Il misterioso complesso di desideri e di vocazioni e insieme di rivolte e di cadute che è l’uomo, come può arrivare fino a Dio? L’uomo deve accorgersi che la via per arrivarvi è veramente interrotta; che questa infinita via con le sue forze non può da lui essere percorsa. Un’ultima, la vera disperazione, invade l’animo. Come arrivare con tutte le impurità del cuore umano alla purezza infinita? E come mettere capo dalla trama di ingiustizie in cui si risolve la vita alla infinita giustizia? e dal profondo di tutto l’odio che riempie la storia, come sperare di essere degni dell’amore assoluto? C’è il male, tutto questo male da espiare; e che cosa offrire in olocausto per espiare? Il grido a Dio si converte in una chiusa vita di desiderio. Nasce il senso della lontananza, del troppo lontano, del tendere senza arrivare; dell’avvicinarsi senza mai toccare la meta, dello sforzo vanamente incessante che non si compie. Una specie di indefinibile nostalgia per un paese lontano e desiderato che non si trova. La vita diventa insomma distacco e lontananza da quello che si vuole e a cui si tende, e che sfugge incessantemente: diventa nella sua essenza desiderio, ma un desiderio che non ha speranza. Una triplice privazione: un desiderare (un non avere); un desiderare invano (un non poter avere); un sapere di non poter avere (un non avere nemmeno la speranza). «Senza speme vivremo in desio»; pena, secondo il giudizio di Dante, dei grandi savi dell’antichità; ma che è la formula meravigliosamente esatta della vita umana dopo la invocazione a Dio: un desiderare senza frutto.
Seguira’ seconda parte ( di 7):