SUICIDIO E PREGHIERA
(tratto da: Giuseppe Capograssi, La vita etica,
Bompiani, Milano 2008, pp. LV + 1340.
Il brano che riportiamo e’ alle pp. 176-216)
5.
Naturalmente questa soluzione del divertimento contiene come ogni movimento della storia una confusa filosofia, che è più che mai una conclusione sulle cose supreme, sui massimi problemi, una vera filosofia che si esprime con l’azione. C’è nella vita ridotta a sistema di divertimenti, come lavoro, giuoco, guerra, un gettarsi nella vita del tempo come l’unica realtà, che poiché è unica è essa stessa eterna: l’eterno che muta continuamente e mutando continuamente è sempre uguale. Officine, partite e guerre esprimono, esattamente con l’esattezza dell’azione quest’uno che raccoglie in sé i molti, questi molti che hanno la loro vita, il loro tempo, il loro luogo nell’uno, sono le labili forme che quest’uno prende, nelle quali gli individui assumono la fluida e indifferente labilità delle gocce nella informe massa dell’acqua. Come eventi, individui sono pure alterazioni dell’unica sostanza, forme che prende l’infinita mutabilità dell’uno. Non c’è un punto di partenza e un punto di arrivo; e nemmeno finito e infinito. Non c’è itinerario; non c’è lontananza da nulla. Non c’è il distacco: il punto di partenza è abolito, tutto rimane in un eterno punto di arrivo, dal quale nulla si è mai partito e nulla si è mai staccato. E perciò per l’individuo si tratta, non di “vivere nel tutto”, come un poeta moderno troppo ingenuamente gli consigliò, perché non sentisse il desiderio dell’immortalità, ma perdersi nel tutto, perdere se stesso e tutte le cose e tutto il mondo del finito e del definito nel tutto. E il tutto è questo mondo che fanno gli uomini, il quale mostra ormai anche all’esterno, anche alla sua superficie, con questo sistema fluttuante e mobile di divertimenti, lavoro, giuoco, guerra, il suo non essere altro che la forza che prende tutte le forme e non si chiude in nessuna forma. Si è chiamato “vita” questo tutto, composto di energie sempre in stato di formazione e non mai formate, e sono nate le religioni moderne della vita, che coerentemente sono le religioni dell’azione e anche le religioni dell’inazione. Un delicatissimo scrittore inglese lo ha colto nei termini più limpidi. A proposito di un suo immaginario personaggio in un suo racconto immaginario, ha notato: «vi sono indoli in cui questo teorema astratto (l’uno soltanto è) ha provocato soltanto un rinnovato valore per gli interessi finiti, che sono intorno e dentro di noi. Centro di calore e di luce, nulla è davvero sembrato trovarsi al di là del raggio della sua perpetua estate». Ma vi sono pure indoli per le quali «quell’unico essere astratto era come il pallido sole artico che si manifesta sulla nostra superficie di un mare glaciale sterile e assolutamente deserto. Il vivo istante vitale ne era stato escluso dal gelo». Un agire continuo, un continuo laboremus, un non agire continuo, un continuo purificarsi dagli stimoli dell’agire. Nell’una e nell’altra soluzione, insomma, un uscire dal finito, dal finito dove il finito è più urgente e più sperimentalmente innegabile, cioè dall’individuo stesso; e quindi un cercare di trasformarsi negli infiniti rincrespamenti dell’unica vita, facendo cessare l’agitazione stessa dell’azione col sopprimere ogni interesse alla vita individuale.
E questa duplice religione dell’azione e dell’inazione si realizza perfettamente nel sistema moderno dei divertimenti, officine, giuoco, guerra, perché in queste clausure l’uomo può massimamente agire come massima adesione all’agitazione del tempo, e può massimamente stare inerte come massima adesione alla fatalità impersonale dei flutti a cui è abbandonato. La perpetua ripetizione degli stessi gesti, degli stessi sentimenti, delle stesse violenze è già per sé un massimo di agitazione e un massimo di paralisi. È il muoversi per muoversi, il partire per il partire, che è insomma niente altro che un agitarsi perennemente senza muoversi mai e senza mai partire. L’etica dell’azione e l’etica dell’abbandono coincidono esattamente nel sistema dei divertimenti moderni. L’etica dello stordimento si realizza con il massimo dell’azione che è il massimo dell’inazione. E parimenti e correlativamente la religione del progresso coincide con la religione del regresso. In questo fluttuare infinito dell’uno che è informe e sterile come il mare, non si sa più quale è il progresso e quale il regresso; le ordinarie dimensioni del tempo spariscono. Per queste onde che si formano e si sformano e che non sono altro che questo formarsi e sformarsi, il passato può essere il futuro, il futuro può essere il passato. Questo perpetuo agire, che è un perpetuo non arrivare a nulla, può ritornare indefinitamente nelle stesse forme, riprendere vecchi sistemi, modi di vita, di guerra, di lavoro: può ritornare alla barbarie come alla civiltà; può ritornare dove vuole, poiché effettivamente non ritorna mai a nulla.
Ma questa filosofia nella quale si risolve la soluzione moderna dei divertimenti, ha la strana natura di dover rimanere chiusa dentro l’azione. Se viene esplicitata, se è messa fuori, si dissipa come soluzione del problema della vita: l’incanto è rotto, riappare l’individuo col suo destino doloroso, e il tempo col suo svanire: rinascono disperazione ne speranze. È una strana filosofia che deve essere solo vissuta; se è conosciuta diventa l’opposto di una soluzione di vita. Il segreto per orientarsi di questo sistema di divertimenti è di viverli nell’azione senza svegliarsi. Bisogna non svegliare l’individuo da questo sopore; bisogna non far rumore, perché se si sveglia, si accorge che egli è il centro di tutto, il soggetto e l’oggetto del giuoco, il divertente e il divertito, vede se stesso e tutto cade.
Purtroppo vi sono individui che si svegliano. Che riescono a gettare su questa vita di divertimenti il lucido sguardo dell’intelligenza, la quale vede le cose come sono nel loro nudo essere se stesse, fuori delle illusioni e delle parole con cui gli uomini cercano di mantenere le loro illusioni. Vi sono individui che restano con tutta la loro ragione (la ragione di vita) di fronte a questo eterno muoversi e a questo eterno silenzio; in essi nascono infatti le più terribili disperazioni che abbiano mai assalito questo martire della disperazione che è l’uomo. Spiriti di una tremenda lucidità, incapaci di alcuna illusione, hanno visto come in un lampo quello che portava in sé quella filosofia o religione che si manifestava e si realizzava nel sistema dei divertimenti, in cui tutta la vita si andava congegnando. Quest’unica vita, quest’unico vivere, che non ha altra esigenza che di se stesso, è l’unica e sola verità. La vita non ha altra sete che di se stessa. Questa è l’unica e sola verità. Nel perpetuo divenire, che nasce da (ed è) questa perpetua sete, tutto si discioglie. Non c’è né vero né falso, né male né bene; non c’è più una permanente natura delle cose; non c’è più una natura dell’uomo; e con le forme permanenti della vita la storia stessa, che pareva un continuo incremento di ricchezza, si discioglie, come è logico, in una serie interminata e interminabile di distruzioni. «Per poter vivere, l’uomo deve possedere la forza di spezzare il passato e annientarlo ed è necessario che impieghi questa forza di tempo in tempo… ogni passato è degno di essere condannato… tutto
quello che nasce è degno di sparire». E questo spezzare stesso è un ripetersi eterno: una eterna ripetizione. Tutto è già stato e sarà ancora come è già stato. Qui la disperazione diventa l’essenza stessa delle cose, poiché tutto si risolve qui in un movimento essenzialmente inutile, che non porta a nulla, che non finisce mai di muoversi e di essere inutile. E allora accade l’inevitabile, per questo individuo che ha visto lucidamente l’essenza della vita, l’individuo si adegua all’universo che ha scoperto. Questo universo come un folle si muove in un automatismo infinito ed inconcludente, e l’individuo assume la stessa follia dell’universo. E Nietzsche ci dà con tutto se stesso, con il santo sacrificio di se stesso, l’esempio dell’individuo eroicamente coerente con la coscienza, che ha del suo destino e del destino universale della vita. La sua pazzia, prima di essere una malattia, è la profonda soluzione, che egli dà con tutto se stesso, con la sua vita stessa al problema della vita. È un esempio tipico di adeguazione perfetta tra individuo e vita universa. Si andava cercando questo eterno nel tempo, e si ottiene. Come la vita universa si muove in un continuo moto di distruzioni e di rifacimenti che saranno distrutti, che è tutta la sua sete e tutto il suo fine, così la vita individuale si converte nell’almanaccare del folle, nel ritornare perenne del maniaco sulla stessa idea, fino al suo inerte e funebre ridursi a una vita, che è come la vita sorda e soffocata della pianta.
Oppure questo individuo troppo lucido, se non può avere la provvida pazzia, conclude sulla vita e sul tempo col suicidio.
Poiché la vita non può adeguare se stessa ed è insufficiente a se stessa, conosciuta questa insufficienza, l’unico modo di stabilire un’adeguazione tra vita e coscienza, e quindi in certo modo di rendere sufficiente l’insufficienza è di troncare la vita. «Il vivo senso della propria insufficienza, il bisogno di venire in ogni punto ai ferri corti con la vita, l’impossibilità di adeguarsi nella qualunque sufficienza e continuare la propria illusoria persona: a vivere senza conoscersi, senza la persuasione» porta direttamente e logicamente alla morte. Non può portare ad altro. Persone intelligenti, cioè che sono arrivate alla conoscenza della vita, e che non hanno pazienza, condensano in un unico atto e arrivano subito a quel termine di non vivere e sopprimersi, a cui pure gli altri per la via lunga e faticosa dei divertimenti arrivano, il suicidio è in questo senso una delle forme più abbreviate di divertimento, che ci possono essere. E certe volte questo suicidio come forma estrema di divertimento si vede proprio allo scoperto. Può essere un suicidio senza morte fisica. Ce ne sono vari tipi. Un suicidio del tipo per esempio di quello di Rimbaud, che rinunzia con la più assoluta delle rinunzie (assoluta, perché con tutta la volontà, con tutto l’animo, sì da perdere ogni esigenza anche spirituale di quello ahe prima era l’essenziale della sua vita) a ogni vita di pensiero, di contemplazione, e si dà alla più nuda ed esteriore, più opaca attività pratica. Può essere un suicidio del tipo di quello consumato da quell’altro francese (Marcel Proust, ndr), il quale, sperimentata l’impotenza di trovare l’eterno nella vita dell’azione, si rinchiude nella sua memoria e nella sua camera, e con una lunga, minuziosa, circostanziata serie di avventure alla ricerca di sensazioni sparite ma ritrovate, capaci di portare «l’edifizio immenso del ricordo», va assistendo, senza forzarlo, al ritornare, nella memoria, del suo tempo perduto, e quando lo ritrova, e cioè crede di aver vinto il tempo nemico, sente, come egli stesso dice, «l’appello verso una gioia sopraterrestre». Memorabile avventura, che consiste insomma nello staccarsi dalla vita per vincere il tempo, nel vincere il tempo morendo alla vita, e rivivendo, quale unica vita possibile, con un’opera di arte leggera come un profumo, gli smarriti e intatti contenuti della memoria. Ma è appunto anche questa, soprattutto questa, una delle più malinconiche rinunzie alla vita e al reale, per un (funebre, eguale alla morte) giuoco di squisita, disperata, vana magia di rievocazione. È insomma un divertimento come gli altri divertimertti, sia pure il divertimento di un genio. Si ritorna sempre cioè, con giri rapidi e lenti, al divertimento, che in sostanza, e tutto sommato, è la più universale, più vera più riuscita (perché riesce a nascondere se stessa) sebbene la più lenta e più lunga forma di suicidio che gli uomini hanno trovato.
In ultima analisi il solo, il vero surrogato, si può dire, che l’uomo trova all’alternativa che Cristo pone, è la rinunzia a se stesso nei mille modi che questa rinunzia prende, e che in definitiva costituisce la vera e la sola moderna arte di vivere.
(Appena è il caso di notare, sebbene non c’entri con questa storia dell’individuo che vive la sua vita empirica, che la filosofia degli addottrinati si è più o meno resa conto di questi vari tentativi empirici di soluzione del problema della vita, e ha cercato alla meglio di esprimere con formule generali, con invenzioni di sistemi, con ricollegamenti a precedenti filosofie, con costruzioni di sociologie, questi tentativi dell’individuo contemporaneo di perdersi negli inesorabili divertimenti della storia, di trasferire la sua vita nella vita di svariate e cangianti collettività, o di liberarsi con le grandi liberazioni della pazzia e del suicidio. Queste filosofie di addottrinati hanno il valore che possono avere, ma sono le uniche teologie possibili per un mondo nel quale si prova e si sente la esigenza di adeguare tempo e vita eterna, e si sperimenta incessantemente la impossibilità di questa adeguazione. Queste filosofie sono la prova che perfino il pensiero riflesso, sempre tardo e restio a cogliere il dolore molteplice dell’azione, e sempre pronto a cercare di nasconderlo in sistemi perfetti e illusori, si è fatto consapevole della esigenza che lacera nel suo profondo la vita dell’individuo).