Suicidio e Preghiera (sesta parte)

SUICIDIO E PREGHIERA

 

(tratto da: Giuseppe Capograssi, La vita etica,

Bompiani, Milano 2008, pp. LV + 1340.

Il brano che riportiamo e’ alle pp. 176-216)

 

 

 

6.

 

 

Se questo sistema di divertimenti fosse perfetto, se cioè riuscisse veramente a divertire l’individuo da se stesso, se spegnesse ogni sua vita nella ipnosi del divertimento, l’individuo sarebbe veramente perduto. Morto nella vita, morto nella morte. Ma vi sono due fatti che rendono impossibile questa catastrofe. Due fatti che rendono sicuro l’avvenire dell’individuo e quindi dell’umanità; i quali sono provvidenzialmente intrinseci proprio al sistema dei divertimenti, che è tutto il segreto della storia contemporanea.

Ed il primo è, che questo sistema, essendo il tentativo di organizzare in termini assoluti la vita del tempo – in quanto la vita del tempo è la soIa vita eterna, la sola vita dell’unica sostanza – sta in continuo stato di tensione, in continuo incessante sforzarsi, in una continua e implacabile tendenza a riformare se stesso secondo fini e schemi assoluti; e perciò a sottoporre l’individuo sempre più a terribili prove. E a rappresentare questa tendenza a questa esigenza di assoluto nel tempo, nascono terribili uomini, che· vivono con immensa energia il sogno dell’assoluto, e si mettono a organizzare gli sforzi e a convogliare masse di forze umane e non umane verso quegli scopi. Sotto questa spinta s’intensifica il sistema dei divertimenti e funziona a pieno rendimento. Ma naturalmente il disegno del perfetto non riesce: i macchinismi disposti per i perfetti ordinamenti della vita non riescono a dare questo prodotto, e le architetture assolute non riescono ad alzarsi sulla sabbia del relativo. Tanto più forte il peso del riuscire o del non riuscire, del conseguire o del non conseguire, ricade sull’individuo. Il sogno tirannico costringe a dare la colpa del non riuscire alla mala volontà degli esecutori, cioè degli individui che girano la macina dei divertimenti; e sulla testa dell’individuo cade più inesorabile la sanzione di questo assoluto, che non riesce a instaurarsi nel relativo. Nasce una specie di orgasmo. Quanto più gli esperimenti falliscono, tanto più la smania del perfetto aumenta. Quanto più si esperimenta l’inesorabile finito, tanto più la speranza dell’assoluto nel relativo dell’eterno nel tempo spinge la povera umanità a un convulso sforzarsi, che diventa veramente infinito di una infinità veramente negativa. Il sistema dei divertimenti per una specie di dialettica interna diventa un furioso e inane sistema di punizioni: dopo ogni delusione, come se la colpa fosse dell’individuo, si vendica sopra di lui dell’ostinato fallire della pretesa di arrivare, rendendo tutto relativo, ad un assoluto paradossalmente composto di tempo e di morte.

L’individuo necessariamente trova se stesso, è costretto a ritrovare se stesso. Quando mi diverto, sto in compagnia, ma quando il divertimento mi si puntualizza in un sacrificio, quando diventa così furioso che distrugge se stesso, allora sono solo; se soffro sono io che soffro, se muoio sono io che muoio. Allora veramente il tempo, il doloroso tempo ridiventa mio, interamente mio, perché lo misuro al mio patire e, posso dire, alla mia agonia; comincio a rivivere me stesso, il mio tempo, il mio soffrire, il mio morire. Comincio a risperimentare il finito. Finito e soffrire, finito e morire coincidono: riscopro il finito. Il confuso amalgama in cui il sistema dei divertimenti aveva cercato un facsimile di eterno, tentando di far perdere all’individuo il sentimento della sua vita propria vissuta da se stesso, e quindi di confondere finito e infinito, si dissipa. Sofferenza e morte ristabiliscono nettamente, con la nettezza del vissuto e del sofferto, il finito.

E qui a rendere sempre più avvertito e consapevole l’individuo di questo se stesso deficiente da ogni parte ma avente appunto la sua consistenza in questa sua generale deficienza, intervengono i grandi momenti contemporanei, che guidano la storia, e che hanno tutti l’ovvia ambizione di costruire ab imis ed ex novo il mondo della vita. I quali, divergenti in tutto, concordano tutti, sono tutti unanimi nel prescrivere all’individuo come dovere il sacrificio, il sacrificarsi, il ridursi a niente. Il sistema dei divertimenti come risultato di tutto il suo organico e concentrato funzionamento impone all’individuo il sacrificio di se stesso: impone in via di fatto. I grandi movimenti che insomma dirigono secondo i loro fini questo sistema, impongono all’individuo il sacrificio di tutto se stesso in via di diritto. Gliela impongono come dovere, come suo obbligo morale, come l’imperativo della sua etica, come la missione etica della sua vita. Questa è l’etica del nostro tempo, non scritta nei libri di morale, ma perfettamente vigente e obbedita in tutto il mondo contemporaneo, poicé è l’etica profonda e potente di tutti i movimenti caratteristici della nostra storia. Ogni movimento prescrive che l’individuo deve immolarsi al fine che il movimento stesso si propone e cerca di portare alla sua realizzazione. Questo è l’imperativo espressamente formulato e seguito da uno dei movimenti più significativi della nostra epoca, il comunismo, ma è pure l’imperativo degli altri movimenti che hanno affermato altri valori come supremi, la razza, la nazione e simili; e concorda il movimento, meno intenzionale e volontario di questi, ma egualmente e forse più coattivo, che presiede alla formazione delle grandi società economizzate e meccanizzate di tipo americano (le quali del resto sono l’ideale di tutti i movimenti contemporanei), che prendendo l’individuo nell’ingranaggio sempre più perfezionato degli automatismi e dei conformismi sociali, lo riducono a un tipo sempre più indifferenziato e informe, e perciò gli impongono un’etica della più assoluta rinunzia a se stesso. Sotto la molteplice coazione di questi movimenti, divergenti in tutto ma convergenti in questo, l’individuo si trova – dopo il breve sogno della storia come facilità, che aveva fatto nell’ottocento – costretto da ogni parte per così dire della realtà, alla più rigorosa delle etiche, che consiste in sostanza nella immolazione di se stesso.

Fatto ed etica coincidono perciò in questa epoca perfettamente. I grandi movimenti contemporanei alzano a dovere morale e imperativo etico per l’individuo il fatto, che è il risultato di tutto il funzionamento del sistema contemporaneo dei divertimenti; tutto il fatto contemporaneo porta al sacrificio dell’individuo; tutta l’etica contemporanea impone il sacrificio all’individuo. Tutte le forze che influiscono sulla vita mi portano al sacrificio, ad abnegare me  stesso; tutte le etiche che trovo vigenti nella vita mi prescrivono questa abnegazione. Mi trovo chiuso da ogni parte. Se non ci fossero queste etiche, mi potrei illudere che questo è un puro fatto, e quindi mutevole come i fatti; ma ci sono le etiche le quali mi dicono che questa è la legge della mia vita, che il mio destino etico è di immolarmi. Io che pretendevo di divertirmi da me stesso, quasi perché presentivo che avrei scoperto in me stesso un destino di morte, mi ritrovo, attraverso questa lunga e inutile via del divertimento, ad avere scoperto alla fine che questo destino di morte è il dovere della mia vita, la legge iscritta nella mia azione ed iscritta nel mio mondo, che debbo seguire, che è mio dovere morale seguire.

Allora nella solitudine che il sacrificio mi crea attorno – perché, non sarà mai ripetuto abbastanza, nel momento del sacrificio sono solo, sono io che mi sacrifico, sono io che muoio – mi domando: perché? Se mi trovassi di fatto sacrificato non farei questa domanda; ma mi dicono, che il fatto che mi riduce a niente è giusto, che debbo farmi ridurre a niente. Debbo: perché? Mi si tratta, come se io fossi una capacità assoluta di sacrificio, una volontà veramente di vita totale, che può fare quest’atto di vita di prendere se stesso, e dare tutto se stesso per olocausto. Mi si tratta così, e mi si impone questo atto di vita come mio dovere. Ed io faccio questo atto e adempio a questa legge. Alla fine non vivo che una sola volta; ma prendo lo stesso la mia vita e la getto sopra una posta; giuoco nientemeno che con la vita! Mi si caccia quasi per forza sul piano dell’assoluto: mi si chiede una assoluta dedizione e l’eseguo. Voglio alla mia domanda una risposta assoluta: un assoluto di fine e di valore, perché solo un valore assoluto può reclamare e rendere legittima la dedizione assoluta.

E i grandi movimenti non mancano di mettere innanzi vari fini per tentare di legittimare l’etica del sacrificio. Non possono non darmeli: una delle infelicità della mia natura è di dovermi dare un fine, di dover prendere di mira qualche cosa. Ma quali fini mi propongono! Nessuno risponde all’assoluto che do. Nessuno è pari all’assoluto olocausto, che faccio della mia vita. Tutti, qualunque essi siano, anche i più alti fini sociali, la creazione di un libero regime sociale di giustizia, sono fini relativi, irreparabilmente relativi, perché alla fine sono finalità di assetti storici, di assetti sociali, che vengono a rimpiazzare assetti che li hanno preceduti, e che moriranno anch’essi distrutti da altre condizioni, distrutti dalla stessa morte, che hanno in sé come creazioni storiche. Quando mi si chiede il sacrificio, mi si caccia sul piano dell’assoluto; quando mi si danno le ragioni che vorrebbero giustificare il sacrificio, mi si immerge nel piano del relativo, e il relativo più relativo che ci sia, e cioè il sociale, il fluttuare delle formazioni collettive, che non sono che mobili combinazioni di interessi nella storia, non sono che il temporaneo; il continuo variare della storia.

Oramai so che cosa sono questi assetti storici e sociali, queste formazioni collettive. I grandi movimenti che mi prendono e mi guidano, non mi hanno insegnato altro, posso dire, che la santità della distruzione, la necessità di sacrificare non solo me stesso, ma le stesse istituzioni che costituiscono gli assetti esistenti del mondo storico. Oramai so, perché me lo hanno insegnato, perché l’ho sperimentato, che tutte le istituzioni, gli assetti, le costruzioni sociali sono nate per la distruzione; è anzi a un certo momento, mio dovere distruggerle: distruggere quelle che esistono nel mio attuale mondo storico, come altri avrà per dovere di distruggere, e distruggerà, le istituzioni che io ora cerco di costruire col mio sacrificio. Oramai ne ho troppo distrutte per illudermi sopra gli ordini sociali che mi promettono, per giustificarmi l’etica della dedizione! E con la distruzione delle istituzioni che mi si è imposta, e che io stesso ho imposto a me stesso, ho distrutto in me tutti i principi, le leggi, le norme che mi avevano dato la tradizione, i padri, la società, le morali con le quali sono stato guidato. Prima che portarmi a quest’etica dell’olocausto mi hanno fatto passare per un’etica posso dire di distruzione. Mi è rimasta solo una legge, l’abnegazione di me stesso e questa è assoluta, perché non si distrugge. Ma questa è immotivata.

Queste parole sacrificio, abnegazione di sé, olocausto l’individuo le riconosce. Sono parole che ha sentito per tanto tempo. Sono le prescrizioni più solenni dell’etica cristiana. In quell’etica avevano una motivazione adeguata. Si dava al mio sforzo vitale una legge assoluta, ma anche, ma soprattutto un fine assoluto. E non solo: mi si prometteva un aiuto infinito al sacrificio che mi si prescriveva; mi si prometteva un termine al mio sforzo fuori di proporzione col mio sacrificio. Ed era un sacrificio, di cui Dio mi aveva dato l’esempio, e che insomma era il sacrificio della parte mortale di me e portava alla vita eterna in Dio. Qualunque cosa si dica, l’etica dell’olocausto era giustificata. Ma qui? Che significano questi fini temporali e storici posti a giustificare quell’imperativo etico? Il fine è troppo inferiore a quello slancio di volontà; e questo slancio è troppo superiore, troppo, quasi si direbbe, eterogeneo a quel fine, che per quanto nobile è irrimediabilmente povero di fronte a quell’eroica capacità di sacrificio che è l’individuo. Fine troppo povero, mezzo troppo alto. Mi accorgo, che mi trovo di fronte a un’altra forma, a un’ultima forma, alla più mortale forma della incapacità costitutiva intrinseca della vita umana ad adeguare se stessa. Mi accorgo che questi poveri fini non sono, di fronte al sacrificio, che «retorica», per ripetere la parola di un suicida; oppure «oppio del popolo» per ripetere una più celebre ma equivalente parola, veramente felice se intesa a rovescio del significato datogli dal suo autore. Nel momento flagrante del sacrifizio, la «retorica» è scoperta, e i fumi dell’oppio svaniscono. Qualunque cosa si promette in questo mondo per domani all’umanità, quello che io ho oggi è il sacrificio totale, e domani non ci sarò. Anche che quegli assetti sociali, così indebitamente posti come valori assoluti, riuscissero a far sazio e libero l’individuo brevemente vivo per il suo passare nel tempo, in ogni ipotesi, in tutte le ipotesi, resta inevitabile la constatazione, che ogni uomo fa, e che solo un uomo ha avuto il coraggio di esprimere con spietata e assoluta semplicità: «le dernier acte est sanglant, quelque belle que soit la comédie en tout le reste. On jette enfin de la terre sur la tête et en voilà pour jamais».

Appare qui veramente il tragico della condizione umana. Una umanità in cui tutto è tragicamente e bizzarramente capovolto. La quale ha per destino di impiegare per poveri fini storici e transeunti le più alte capacità spirituali che ci siano, le più pure volontà eroiche di sacrificio, i più disinteressati coraggi, gli ascetismi più austeri. L’umanità è una immensa ricchezza di forze spirituali continuamente condannate a sacrificarsi per fini troppo inferiori ad esse e tutti dominati dalla legge del proprio sparire e quindi della morte. Dove va tutta questa ricchezza? Tutta questa ricchezza si perde come il fumo nell’aria; contribuisce a dar vita a quegli assetti, che poi interessi concreti sformeranno e riformeranno diversamente, ed ulteriori etiche imporranno di distruggere. Tutto il di più, l’eroico, il disinteressato, il santo, si perde, non ne resta nulla, nemmeno la memoria. All’individuo, di tutta quella ricchezza che è, di tutta quella ricchezza che dà, non resta altro premio che la morte. La morte chiude da tutti i lati il suo orizzonte. L’essenza delle cose si scopre nella sua tremenda semplicità: non è che il sacrificio: Tutti questi fini che mi si danno sono pretesti: il vero fine , è esso, il sacrificio.

Qui a me, che ho detto di no alla chiamata di Dio, che ho rifiutato la speranza di Cristo, torna in mente Cristo. I moderni hanno a modo loro riflettuto e riflettono a lungo su Cristo; e qualcuno, impotente come gli altri a credere in Cristo, e impotente come gli altri a dimenticarsi di Cristo, ha visto in lui veramente il rappresentante dell’umanità: in questo straordinario senso, che ama, si sacrifica per tutti, sale sulla croce e sulla croce deve riconoscere e riconosce, con la più amara delle sue parole di agonia, che Dio lo ha abbandonato. Questa sarebbe l’ultima e finale parola dell’umanità. Ora chi non riconosce in questo Cristo l’individuo contemporaneo? Ecce homo, veramente! La legge della vita è veramente la croce, ma tutto il destino della vita finisce veramente con la croce. Non c’è resurrezione. Croce e tomba. E la tomba non si riapre. Evacuata est crux Christi. San Paolo non aveva pensato che potesse venire un tempo in cui, di Cristo non restasse che la crocifissione, e questa fosse la legge, il fine e la fine della vita, senz’altro seguito, come la conclusione di un tutto senza conclusione. Questo immaginario Cristo crocefisso, che scopre sulla croce che si è ingannato e muore, vero eroe della disperazione umana, è l’immagine dell’ovvio, e quotidiano destino di questi individui che noi siamo.

Settima ed ultima parte:

Suicidio e Preghiera (ultima parte)

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