SUICIDIO E PREGHIERA
(tratto da: Giuseppe Capograssi, La vita etica,
Bompiani, Milano 2008, pp. LV + 1340.
Il brano che riportiamo e’ alle pp. 176-216)
7.
Qui veramente si può dire, si osa dire, che l’individuo sperimenta il finito ed effettivamente dispera del finito. Lungo la sua vita l’individuo ha spesso disperato. Ma forse erano tentativi, erano prove. Nemmeno disperare, interamente disperare, è facile! Qui l’individuo, questo cristo che ha per unica legge e unica realtà la croce, ed oramai lo sa, dispera del finito e cioè di se stesso. Ma qui veramente la effettiva disperazione ha la inverosimile efficacia di risvegliare la nascosta e assopita attenzione dell’individuo sopra se stesso. Qui a questo punto l’individuo può ripetere la singolare e profonda parola di uno dei più singolari e profondi individui moderni: «tout ce que je sais, je le dois au désespoir». Toccato il fondo della disperazione, arrivato a non vedere altro che il sacrificio come il fine e la fine della vita, l’individuo apre gli occhi sopra se stesso. Chi è questo che si sacrifica? chi è questo tale che soffre? Il fatto è che l’individuo non si è mai incontrato con se stesso. È il momento del sacrificio che richiamando appunto l’attenzione su se stesso, su questo se stesso che alla fine è in questione, lo mette di fronte a se stesso. Tante cose sono state in questione nella vita dell’individuo finora: azioni, passioni, interessi, desideri, verità, problemi. Ma la vita stessa dell’individuo nel suo tutto, nel suo se stesso – scopre adesso l’individuo – non è mai stata in questione; l’ha sempre supposta, se l’è sempre gettata dietro le spalle. Solo il sacrificio, il pericolo, l’olocausto mettono interamente in questione questa vita; la sgombrano di tutto il vario accessorio che era stato scambiato con l’essenziale e snudano la vita nel suo puro essere se stessa. Adesso che la lascio vedo la mia vita fuori delle situazioni parziali e artificiali, che avevo sempre scambiato per essa. Singolare è stata finora la mia cecità: proprio la cosa più vicina, la cosa che è tutto me stesso, non l’ho mai vista. E lo straordinario è che si può dire che non sono andato cercando altro; sono andato cercando di avventura in avventura, di interesse in interesse, di fine in fine, proprio la mia vita e non mi sono accorto che quello che andavo cercando già l’avevo, che ero già arrivato là dove mi affannavo di arrivare. La mia vita non era altro che il momento in cui vivevo. Ma proprio questa cosa così semplice non l’avevo mai vista. Solo il sacrificio, nell’atto che mi costringe a lasciare la vita, mi fa scoprire quella cosa semplice che è la vita, la quale è tale, è vita, nell’atto che si vive, nel momento, in ogni momento che si sta vivendo. Ed io, che si può dire che ho passato tutta la mia vita cercando di prepararmi a vivere, cercando di organizzare le condizioni per vivere, non mi sono mai accorto che intanto stavo vivendo, stavo passando quella vita che incessantemente mi preparavo, con una preparazione sempre più perfetta, a vivere. E mi accorgo adesso che c’è qualche momento che ho vissuto veramente la vita, senza pensare ad aspettare o preparare il momento futuro; ma lo strano è che questi momenti in cui ho vissuto, sono appunto proprio i momenti nei quali mi sono liberato dalla volontà attiva e crudele di vivere, di raccogliere i mezzi per vivere, di preparare le condizioni per vivere; proprio i momenti di riposo, quegli istanti di ozio, di remissione dalla febbre dei fini, sono stati i momenti in cui ho vissuto!
Scopro adesso che la mia vita, la sola vita che ho vissuto, l’ho vissuta quando mi sono abbandonato ai sereni atti di amore, con i quali sulla massa senza volto ho colto la vita umana e fraterna, quando mi sono riposato e abbandonato al tranquillo scorrere del mio destino, quando ho provato un istante di gioia nascosta per il bene che ho voluto e che ho fatto. Proprio questi istanti non avevo visto, proprio questi istanti mi parevano vuoti. Adesso, nell’atto del sacrificio, intravvedo una cosa nuova, che prima mi era sempre costantemente, ostinatamente sfuggita, il momento presente. Per aspettare, per rendere possibile il momento futuro, mi sono sempre giocato il momento presente. Per poter raggiungere il momento futuro e trasformarlo in presente, per poter avere questo inverosimile miracolo, ho perfino tentato di fare il patto col demonio, e il demonio con una serie di grottesche avventure non mi ha dato che delle parodie del momento presente: le parodie burlesche del piacere e del divertimento, che non sono che suicidio e cioè il cessare di ogni lotta tra momento futuro e momento presente.
Scopro ora, nell’atto in cui il sacrificio mi toglie presente e futuro, che non c’era né da aspettare, né da preparare, né da chiedere nulla; c’era soltanto da vivere. Quello che andavo cercando, già l’avevo, già mi era stato dato. Ma appunto scopro che questa cosa così facile – vivere mentre si sta vivendo, vivere il momento che si sta vivendo e non aspettare di vivere il momento futuro – così facile che la sanno perfino i bambini, i quali non vivono altro che così; questa cosa che in sostanza consiste nell’adempiere il più facile dei precetti, che formula il libro antichissimo: «comede in laetitia panem tuum et bibe cum gaudio vinum tuum», questa cosa facile non sono stato mai capace di farla. Vedo adesso, che cosa ho fatto della mia vita, cioè degli innumerevoli momenti presenti che non ho vissuto, che ho dilapidato. Posto dinanzi alla semplice legge del vivere il momento presente, una specie di panico mi ha preso; ho temuto di non avere le cose che mi sono necessarie a vivere; soprattutto ho temuto che gli altri mi prendessero lo spazio e le cose di cui ho bisogno. E vinto da questo timore, sono andato prendendo quante più cose è possibile, sottomettendo quanti più uomini è possibile; per arrivare a vivere mi sono perduto in un labirinto di interessi, di fini e di oggetti, mi sono seppellito vivo sotto una massa di cose, di azioni, di lotte, che rimandano ad un crudele e inarrivabile futuro il vivere, dietro cui non faccio che correre. Spinto dalla smania dell’accaparrare le cose, quasi che il vivere stesse nelle cose, e del dominare, quasi che il vivere stesse nel superare gli altri, non faccio che far soffrire gli altri, che opprimere gli altri, e automaticamente, nell’atto stesso, dar dolore a me ed opprimere me. Gli altri fanno lo stesso verso di me; e tutti quanti per vivere cerchiamo di toglierci a vicenda le cose, di impedirci la serena vista della creazione, di privarci reciprocamente della vita: presi da una specie di invincibile avarizia e dal terrore che le ricchezze della creazione si esauriscano e non siano sufficienti a questo breve e minimo nostro esistere, non facciamo che toglierci continuamente e reciprocamente dalle mani le cose come in un giuoco di bambini.
Infelix ego homo! non posso che ripetere con un uomo che ha potuto misurare la sua miseria, alla grandezza della rivelazione che aveva avuto da Dio. Anche io ho avuto il dono della vita, il dono della creazione; il dono dell’amore, il dono della semplicità; ma questi doni è come se non li avessi avuti. Lasciandoli da parte, mi sono messo a prendere cose, utilità, azioni e persone a destra e a sinistra; e gli altri, hanno fatto come me, e ci siamo perduti e ci perdiamo in una furibonda rissa, di ciechi che si odiano nel buio e cercano nel buio di darsi l’un l’altro la morte. Infelix ego homo! alla fine mi accorgo di quello che siamo: gente che abbiamo bisogno di pietà. Alla fine mi nasce in cuore la pietà per me e per gli altri, la compassione di tutto questo patire che diamo e che riceviamo.
Mi nasce la compassione di me stesso che piango e dell’altro che piange. Accade questa cosa inaudita: vedo l’altro piangere. Accade questa cosa inaudita, che l’uomo dice all’altro uomo che l’opprime, come Lucia all’Innominato: «sono una povera creatura»; e accade che l’altro uomo, come l’Innominato a Lucia, risponde con parole di dolcezza «che fanno trasecolare la vecchia», cioè chi non le aveva mai sentite da quando era nata. Nasce il rapporto umano; l’uomo arriva a fare questo sforzo inaudito di staccare l’altro uomo dalle cose con cui lo confondeva, a vederlo nella sua faccia umana e fraterna, come una vita che bisogna amare, che bisogna aiutare a vivere, che non bisogna far soffrire. Per la prima volta l’uomo vede l’altro uomo, lo vede come se stesso, e vedendo l’altro come se stesso, conosce se stesso, si conosce alla fine come uomo.
Il rapporto di oppresso e oppressore, di schiavo e di padrone è veramente la nascita del rapporto umano; non in quanto tale (in quanto tale è la negazione del rapporto umano), ma solo in quanto nasce la pietà nell’uno e nell’altro dei poveri protagonisti del povero dramma. L’oppresso chiede pietà, conosce alla fine, illuminato dal dolore, l’oppressore come uomo (gli chiede pietà!); l’oppressore ha pietà cioè si attua, si può dire, come uomo e perciò conosce se stesso come uomo, l’altro come uomo. Ma come avviene questo miracolo? L’oppresso dalla forza, spera anche lui nella forza: invoca Dio, cioè la forza infinita di misericordia, che è nascosta dietro tutte le cose e le forze. Questo nome nasce, quasi si direbbe, naturalmente nel seno stesso dell’impotenza e della debolezza, che diventano forti con questo nome. L’oppressore stesso lo riconosce: «sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre hanno questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato».
L’oppressore stesso si accorge che con questo nome nasce una pretesa, che questo nome anzi è una pretesa. E l’oppresso formula espressamente la pretesa: «che cosa posso pretendere se non che mi usi misericordia?». Pretesa appunto: questa incredibile parola è proprio usata dall’oppresso. Questa pretesa di misericordia, crea il rapporto umano. Sei uomo tu che mi opprimi, e perciò sei capace di pietà e hai bisogno pure tu di pietà; tutti e due abbiamo bisogno di pietà: «Dio perdona tante cose per un atto di misericordia». Qui l’eguaglianza è raggiunta; il rapporto è perfetto; perché l’uno e l’altro, l’oppresso e l’oppressore, riconoscono che nessuno ha la forza, che nessuno è capace di difendere se stesso, che tutti hanno bisogno di «mettere in campo» Dio, «come, se gli avessero parlato». E tutti parlano a Dio, perché a tutti gli oppressi Dio parla (e chi non è oppresso?). Qui nella pietà, nella compassione il cuore rivela alla fine le ragioni che sono proprio sue, che la ragione la quale vive nell’ipotetico non conosce, e che sono le sole che fanno conoscere all’uomo se stesso, gli altri e Dio. Ma qui in questo momento della pietà il male è vinto il rapporto umano si rivela nella sua verità come pretesa di misericordia e promessa di misericordia; tra l’oppresso e l’oppressore, tra lo schiavo e il padrone nasce la fraternità nel comune riconoscimento del comune bisogno di perdono e di misericordia. Culmina qui la vita etica, ed è il momento di Dio.
Quello che c’è di terribile nelle soluzioni dello stordimento e del divertimento, nelle soluzioni del lavoro, giuoco, guerra e nelle controsoluzioni della pazzia e del suicidio, è che non c’è pietà. Nessuno, ha pietà né degli altri, né di se stesso. Queste soluzioni ignorano la pietà. Ignorano quello sguardo col quale si scopre quasi si direbbe per la prima volta nell’uomo, non più una forza estranea che esiste per essere o utilizzata o soppressa, ma la faccia fraterna dell’uomo; lo sguardo col quale l’Innominato vede per la prima volta, dopo tutta una vita, un individuo che piange. Si può dire che tutti i divertimenti non sono che un insieme di tecniche molteplici e raffinate per spegnere nell’uomo la pietà dell’ altro uomo e di se stesso; per disabituare l’uomo a vedere (può essere se stesso, può essere l’altro) l’uomo che soffre e che piange.
Il terribile è che queste tecniche insomma riescono; che questi movimenti si formano; che queste masse nascono, nelle quali l’uomo è in assoluta solitudine, staccato dagli altri, dalla creazione; e perfino e soprattutto da se stesso. Nasce una umanità che ha abbandonato proprio l’umanità; ha abbandonato la pietà e Dio e non sa come ricostruire il rapporto umano.
Scambiando l’umano col sociale, si illude che attraverso le organizzazioni sociali possa attingere l’umano e in questa illusione non fa che provare e variare combinazioni sociali. Se vogliamo adoperare la lingua di Pascal, questa umanità chiusa nell’ordine dei corpi e nell’ordine dell’intelligenza, vuol risolvere il problema che si risolve solo nell’ordine della carità.
Ma qui veramente, dinanzi a questa umanità in stato di morte la pietà diventa veramente se stessa. La pietà acquista il suo vero oggetto. Per l’individuo che nel momento presente del sacrificio ha scoperto tale umanità, questo diventa il vero dolore, la più vera, la più pura, la più santa fonte del dolore. Di là da tutti i divertimenti e i cataclismi della storia effettivamente c’è una umanità fuori della carità, la serie degli uomini che non danno e non chiedono misericordia, che non hanno la «forza» e non sono «capaci di difendersi» ma non lo riconoscono, e credono di potersi liberare dal dolore, gettando gli altri nel dolore. E la compassione nell’animo dell’individuo diventa veramente quello che è nella sua essenza profonda, quello che è nata a essere, si dilata a tutta l’umanità senza carità. Come l’uomo preso dall’avarizia e dalla cupidigia vorrebbe (ma non può) far diventare cose da godere e da distruggere tutte le vite del mondo; così l’uomo, preso dalla pietà, vuole aver pietà e può, ha pietà di tutte le vite del mondo. Come l’avarizia e l’accaparramento hanno in sé una loro interna crudele tendenza all’universale, la pietà e la carità, quasi per risanare quelle ferite, hanno anch’esse, più che una tendenza, un attuale ardente slancio verso tutto il mondo della vita. La pietà per l’oppresso e la pietà, forse più forte, per l’oppressore, è pietà per tutti gli oppressi e per tutti gli oppressori, e cioè per tutti gli uomini, dei quali ognuno è insieme oppresso e oppressore, schiavo e padrone insieme. La pietà è desiderio di pietà. Chi può avere pietà di tutti gli uomini? È necessario un cuore infinito per poter avere pietà di tutti.
Nasce la preghiera. La preghiera è il trepido desiderio, la trepida quasi non formulata domanda, che Dio abbia pietà degli uomini, di questa umanità senza pietà. Ma in tale desiderio, in tale trepidare dell’anima, vi sono tante cose! Dio abbia pietà degli uomini! Quando nomino Dio, sento una specie di aura lontana di pace, di riposo, di luce infinita, la balenante prospettiva di una vita che, come ha detto il poeta, ha per confine solo amore e luce. Ma questa prospettiva mi rimette innanzi agli occhi più terribile la visione del mondo, del tempo, dove tutti gli sforzi vitali sono spezzati dalla morte, e tutti i tentativi di pace sono soffocati dall’«evangelio di superbia e di odio» che vi domina. Invoco il nome di Dio, e un’onda infinita di pace mi invade l’anima e si mescola, come acqua con acqua, a quella pace. E mi accorgo in questo stesso atto, nell’atto stesso in cui chiedo pietà a Dio, che Dio stesso ha bisogno di pietà, che alla fine egli è come un mendicante, anzi il vero e solo mendicante che ci sia, che batte al cuore dell’umanità e l’umanità non risponde e abbandona il mendicante alla porta. In confuso sento che chiedo pietà e chiedendo pietà offro pietà; che invoco l’amore onnipotente e ho pietà di questa onnipotenza impotente. Ho pietà degli uomini; ho pietà di Dio che non trova pietà negli uomini. Ma ora vedo tutta la mia vita, il vero senso della mia vita. Sono io che ho negato pietà a Dio che la chiedeva. Tutto il male che ho fatto, tutto il dolore che ho dato, l’odio che ho sentito, il fratello che in cuore ho soppresso, perché l’ho odiato e «qui odit fratrem suum, homicida est», non sono altro che l’amore infinito che ho respinto.
Mi sento colpevole di tutto, mi sento colpevole per tutti; sono uno tra i tanti; ma ognuno fra i tanti è uomo ed è responsabile di tutta l’umanità, rappresenta ed è in questo terribile giuoco del destino tutta l’umanità, ed ogni sua colpa non fa che realizzare questa vita di colpe, in cui questa povera umanità si perde a ogni istante. Mi nasce nel cuore un confuso bisogno di riparare, di fare, di dare, di patire. Dio è abbandonato e io debbo riparare questo abbandono. Sono uno tra i tanti e questo uno che sono io, almeno questo uno, espia per tutti. Posso offrire la sola cosa che ho, questo mio vivere, il momento presente che stringo e non stringo, la serie infinita dei momenti presenti che è la mia vita, questo continuo sacrificio del finito, del male, del dolore, della morte che patisco. Adesso tutto il male che ho sofferto, tutto il male che soffro, l’offro per espiare la infinita misericordia che ho respinta, la porta che non ho aperta al mendicante Dio che batteva, Dio che ho crocifisso nei fratelli che ho odiato, o non ho trattato come fratelli.
Tutto il sacrificio che la storia richiede, e che la vita mi domanda ogni giorno, adesso lo vedo nella sua immensa ragione, nella sua profonda e segreta giustificazione, vedo che non è espiazione, e pregare significa accettarlo come espiazione, farlo diventare veramente sacro, trasformarlo in offerta di accettazione e di giustizia. Ed offerta per me e per tutti, espiazione per me e per tutti, perché accollo da parte mia della colpa e della croce di tutti. Qui mi sento risorgere; qui i misteri e gli scandali metafisici della vita mi si chiariscono. Capisco che qui le contraddizioni si sanano, lo scandalo di Dio cercato per tante vie e abbandonato in tanti modi, trova nella preghiera, nel desiderio dell’espiazione, nei sacrifici della vita e della storia, accettati come espiazione, una risposta, la sola risposta di vita, che dà la vita, e perciò la sola via, il solo modo della resurrezione, il solo modo di ritornare a essere vita, e poter così invocare sopra di tutti il nome di Dio, che è il Dio dei vivi e non dei morti.
Pregare, espiare, risorgere, vivere. Questo unico modo di risurrezione è proprio la cosa essenziale che non sanno i sapienti e i prudenti; è proprio la cosa essenziale che è stata rivelata ai piccoli, Tutti ricordano, in uno dei più misteriosi poemi del più grande poeta russo, che questa unica verità, questa unica via della resurrezione fu insegnata da una povera prostituta a un dotto assassino.
Tutte queste cose sono nella preghiera; sono la preghiera; tutto in confuso, tutto nascosto, tutto contraddittorio. La preghiera è un discorso «uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini»; un atto, un silenzio, un’estasi, uno stare in croce, un senso profondo di pace, un senso profondo di amarezza, un darsi a tutti, un espiare per tutti, uno stare in se stesso e sentire Dio che parla o chiedere che Dio Parli; un repentino accorgersi di Dio nascosto, un tacito abbandonarsi a Lui, un tacito offrirGli il povero dono dei momenti di dolore. La preghiera è tutte queste cose insieme o ciascuna di queste cose; la cosa più terribile e la cosa più soave; la vera disperazione e la vera speranza. Il culmine di tutte le contraddizioni della contraddittoria anima dell’uomo e della contraddittoria storia del suo destino. Al limite è insomma sempre, inevitabilmente, o conosciuto o ignorato, Cristo e la Croce, e le sue parole sulla Croce. Pregare è praticamente sentire nella agonia dell’umanità che scende verso la morte, l’agonia di Cristo; e, come ha detto il solito uomo, che ha avuto il privilegio di esprimere l’inesprimibile atto di vita che fa la santità dei santi, non dormire fino a che dura questa agonia.
La via delle resurrezione passa soltanto per qui. E perciò in questa vita di desiderio, di pietà e di espiazione che è la preghiera; si profila, esile e leggera, la speranza. La vita con le sue contraddizioni e le sue vocazioni chimeriche, prende un significato: le promesse nascoste nella vita e così crudelmente negate, gli appelli segreti alla gioia, che la vita contiene e così crudelmente
soffocati appariscono, alla fine, come i germi, gli incerti annunci, gli incerti inizi di una vita e di un mondo, che la speranza vede di là dalle cose presenti, in cui la morte, lo scandalo della morte e di tutti i distacchi di cui la morte non è che il terribile epilogo, sarà vinto, e la carità sarà tutto in tutti.
(Qui e ora il motivo maggiore di fiducia per l’avvenire è proprio questo: che tutto lascia prevedere che l’individuo e per conseguenza i popoli, saranno sempre più messi in croce. Terribili ordigni e ritrovati capaci di scatenare tempeste di apocalisse non solo sull’umanità, ma su tutti gli esseri viventi alla superficie della piccola terra; regimi sociali sempre più spietati; lotte politiche che saranno sempre più «ostinatissime fazioni e disperate guerre civili», già mettono, ma sempre più metteranno l’individuo e quindi i popoli in una continua concreta universale situazione di morte. Il genere umano se ne è accorto, il quale mentre diventa sempre più insensibile al significato della morte, non fa altro che parlare di morte, non tanto nei libri dei filosofi e dei sacerdoti ma nella letteratura amena dei romanzieri, degli uomini di teatro, dei poeti, negli spettacoli a cui tutti vanno; nelle riviste che tutti leggono, nelle innumerevoli fotografie di corpi morti esposte dovunque. Sembra che il genere umano sia affascinato dal fatto esteriore della morte, dalla quiete che il corpo ha ormai raggiunta, non senta che l’incanto di questa quiete, la vocazione di essa. Ora quanto più questa storia spietata mette l’individuo di fronte alla morte, cioè alla sua morte, tanto più, per un paradosso che è una delle grandi prove della Provvidenza che governa il mondo, l’individuo si ritrova nella originaria, alla fine recuperata coscienza della sua disperata situazione di povertà e insieme nella sua originaria capacità di preghiera, nel suo originario bisogno di perdono e desiderio di Dio. Tanto più l’individuo è costretto a vincere e dissipare l’incanto del sociale, che vale solo in quanto prepara, aiuta e porta all’umano; è costretto a scoprire se stesso, a risentire nella profondità del suo spirito la assoluta semplicità dell’umano, l’esigenza, i richiami, le comunicazioni dell’infinito, che sono la sua nobiltà e il suo destino. Tanto più cioè lo riporta a Dio. E poiché tutto questo avviene nel sacrificio e nel dolore dell’azione, lo riporta non all’inutile dio dei filosofi, ma al Dio che ha parlato agli uomini, che è sceso uomo fra gli uomini, che è morto per tutti sulla Croce, ed è sempre vivo per salvarci. Qui seminat in lacrimis, in exultatione metet. Quanto più sarà messo in croce, tanto più l’individuo tornerà a credere in Dio e nella sua giustizia.
In questo senso, poiché è certo l’aumentare del dolore nel mondo, l’avvenire dell’individuo è sicuro).