La spiritualita’ celestiniana

 

 

Claudio Palumbo, Intorno a Pietro da Morrone/Celestino V

 

in: «Terra Laboris Felix Terra» – Atti delle Giornate Celestiniane, Quaderni Campano-Sannitici X, 2011, a cura di Domenico Caiazza, pp. 310-314

 

 

 

 

A partire dalla fine del secolo XII si registra un declino delle strutture del monachesimo benedettino il quale, specie nel secolo XI, secolo di una grande riforma della Chiesa, aveva reso immensi servizi al papato e alla cristianità. Tale declino farà anch’ esso da preludio alla grande crisi del Trecento.

Nell’ XI secolo, per influsso dell’ideale della vita evangelica, e sotto l’egida di un papato riformatore, aveva preso corpo la riforma del clero e della gerarchia ecclesiastica, minata da due antichi e potenti nemici: simonia e nicolaismo. Con Gregorio VII (+1085) e la sua lotta per la libertà della Chiesa dal potere secolare (lotta per le investiture), il mito della riforma (renovatio ecclesiae), nutrito dall’ ansia evangelica, ammoniva il clero secolare e regolare e lo esortava a non possedere più nulla in proprio, bensì ad avere tutto in comune ad instar primitivae ecclesia1. San Giovanni Gualberto (+1073), con i suoi Vallombrosani, i laici della Pataria milanese, tanto per rimanere agli esempi più noti, si erano particolarmente segnalati – i secondi anche con organizzazione di tipo militare appoggiata dai pontefici – nell’opera di rinnovamento ecclesiastico, puntando all’integrità di vita dei chierici e alla incarnazione di uno stile di vita più ascetico, fatto di povertà, penitenza, umiltà e mansuetudine, e di servizio ministeri aIe generoso e gratuito.

Ciò comportava la nascita di diversi centri di chierici regulariter viventes (la regola agostiniana è la più richiesta), si pensi ai Vittorini di Parigi, oppure ai Premostratensi o Norbertini, tutti dediti alla vita eremitica in penitenza e povertà nonché alla predicazione popolare itinerante, chiamati anche, assieme ad altri ordini similari, pauperes Christi a motivo dell’ideale della sequela del «nudo Cristo». Lo stesso ordine benedettino cluniacense non restava immune da questo fervore di rinnovamento, nonostante le severe critiche di San Bernardo che prendeva di mira anche 1’arte dei cluniacensi, espressione, a suo dire, di quella materializzazione nella quale la religione monastica, tutta interiore, era stata imprigionata, mentre i Certosini di san Bruno prendevano il Vangelo a regola per tutti, optando per la solitudine contemplativa, e i «boni homines» dell’ordine di Grandmont consideravano le diverse regole monastiche come altrettanti ruscelli del Vangelo. Dagli istituti clericali e ordini monastici, cenobitici ed eremitici, lo spirito evangelico si diffondeva nel mondo laicale, nelle popolazioni e nei singoli. Eloquenti, fra le altre, le testimonianze di Gerhoh di Reichersberg o di Bernoldo di Costanza. Rimane un fatto che tra la fine del sec. XII ed il XIII i laici, uomini e donne, singolarmente in privato, o comunitariamente in fraternitates o confraternitates, non di rado anche con 1’apporto di chierici, si mostrano evangelicamente animati. In Italia centro-settentrionale la nascita dei Comuni favorisce maggiormente la partecipazione dei cittadini ai problemi anche religiosi di questa nuova realtà. Appartiene ai laici la preghiera e l’ascolto dei testi biblici, come anche la pratica della penitenza e della carità fraterna: a cominciare dalle pie esortazioni e fino alle refezioni comuni, all’assistenza dei poveri e dei malati negli «hospitia». Questi movimenti religiosi popolari dei sec. XII-XIII tendono a una Chiesa di fratelli, rifiutando la via degli ordines e rigettando il sacerdozio gerarchico. Provenendo dal volgo, dalla classe degli illetterati o idiotae, essi predicano e commentano le Scritture e fanno seguaci tra la gente, incline più a notare i fatti che a badare a sottigliezze ideologiche. Li si conosce con il nome di Valdesi e di Umiliati e li si vedrà in lotta contro i Catari, ormai però tutti accomunati nell’ombra della eresia, da combattere con le armi della scomunica e dell’ abbandono al braccio secolare.

Quando nel 1198 Innocenzo III assumeva il sommo governo della Cristianità e della Chiesa la necessità di un ulteriore rinnovamento spirituale e morale della società si imponeva da sola. In Italia si era nel frattempo accentuato il divario politico-religioso tra Nord e Sud: in quest’ultima parte della penisola mancavano i fenomeni della città che avevano riguardato l’altra parte del paese. Durante il XII secolo nel Mezzogiorno i sovrani normanni, con l’appoggio del papato avevano riorganizzato la vita della Chiesa, specialmente con la ricostituzione, in Puglia, Sicilia e Calabria, di diocesi che soppiantavano quelle greche. I monasteri di Montecassino, Cava dei Tirreni e Montevergine avevano dato man forte a questa impresa. Emergeva, perciò, qui a differenza del Nord, l’importanza del monachesimo. Ora, più tardi di altrove, i Cistercensi sono introdotti accanto o in alternativa ai basiliani. A Corazzo andava formandosi la personalità religiosa del Mezzogiomo: l’abate Gioacchino da Fiore, emblema di un rinnovamento religioso-sociale radicale. La situazione italiana appariva così distinta: al Centro e al Nord esistevano movimenti religiosi cittadini; al Sud ampi fenomeni di religiosità monastica.

Con la crisi del XIII secolo i monasteri vanno in declino e tendono alla chiusura e all’isolamento dalla vita cittadina. Ciò andava a scapito di quell’ideale di vita apostolica molto vicino alle masse le quali, a loro volta, prendono le distanze dai monasteri per avvicinarsi vieppiù ai nascenti ordini mendicanti la cui evangelica novitas contrastava con la statica sanctitas degli ordini monastici. Così l’anonimo premostratense di Brandeburgo: « … gli Ordini antichi riscuotono oggi poco credito, e questo a motivo della cattiva vita di coloro che ne professano la Regola; e così, quanti sono intenzionati ad abbandonare il mondo per servire Dio, non li ritengono più bastanti alla propria salvezza. Se infatti li giudicassero ancora sufficienti, mai più cercherebbero altri nuovi Ordini». E nondimeno il secolo XIII ritrova nuova linfa spirituale con l’influsso, post mortem, delle idee dell’abate Gioacchino da Fiore (+ 1202) cistercense e, a sua volta, fondatore di un nuovo ordine monastico, i florensi. Basandosi sulla esegesi neotestamentaria, ed in particolar modo sull’Apocalisse, il profetismo apocalittico ed escatologico dell’abate calabrese riscuote grandi consensi in seno alla cristianità occidentale. Era, tutto questo, il risvolto positivo a fronte di un diffuso malessere spirituale che permarrà con lunghezze d’onda diverse nell’ arco di tempo che corre dal XII a tutto il XIV secolo. Gioacchino additava agli animi la nuova età, quella dello Spirito Santo, che succedeva alle precedenti età del Padre e del Figlio (un precedente, in verità, lo si può ritrovare anche presso gli antichi manichei), nella quale si sarebbe formato il nuovo uomo spirituale in ambito strettamente religioso. Donde un rinnovato fervore non solo in chierici, frati e ordini religiosi, bensì anche nelle masse dei fedeli. All’influsso del gioachimismo è collegabile il fenomeno spirituale dei flagellanti (o anche battuti, disciplinati) avviato a Perugia da fra’ Raniero Fasani nel 1260 e di qui diffuso prima verso Roma, poi verso il Nord Italia. Salimbene de Adam racconta: «Nell’anno 1260 arrivarono dovunque i flagellanti e tutti, piccoli e grandi, nobili cavalieri e popolani, si fustigavano sulle carni nude mentre in processione attraversavano la città… e mentre così si percuotevano cantavano lodi da loro composte in onore di Dio e della beata Vergine»l2S. Proprio i laudari, composizioni oltre tutto di indubbio valore letterario volgare, riflettono meglio di ogni altri documento l’ispirazione cristocentrica degli animi, frutto, a sua volta, della predicazione mendicante francescana

e domenicana. L’umanità sofferente del Cristo – ineguagliabilmente espressa dai crocifissi dipinti o scolpiti nel Due-Trecento – diventa la chiave di lettura del Vangelo. L’esperienza umbra diventa a sua volta modello per altre manifestazioni collettive del Trecento, fino alla grande esplosione dei Bianchi (fine Trecento) che per tutta Italia andranno flagellandosi a sangue, cantando inni e salmi per i vari centri abitati ove, al grido di Misericordia!, organizzeranno buoni uffici di pacificazione sociale tra opposte fazioni e famiglie o singoli cittadini, interporranno intercessione per la liberazione dei carcerati pentiti, celebreranno funzioni pentitenziali di espiazione e riparazione dei peccati.

È in questo contesto storico spirituale ecclesiale della Cristianità medioevale che

si inserisce l’opera di Pietro da Morrone/Papa Celestino V.

Nel 1264 sono fondati gli Eremiti di San Damiano (Damianiti), poi per lungo tempo detti Morronesi, e finalmente Celestini. Una nuova congregazione monastica che riflette da un lato l’inesauribile vitalità del monachesimo benedettino, dall’altro offre a tutti una incomparabile grammatica dell’ agire cristiano dentro la storia ma per motivazioni profonde che superano la storia stessa.

Quali gli ingredienti di questa spiritualità celestiniana?

L’Autobiografia tiene ad una sottolineatura a proposito del piccolo Pietro. Essa precisa infatti come questi, undicesimo di dodici figli: «riferiva tutto alla mamma, e spesso le diceva: “Voglio essere un buon servo di Dio”» (Aut., II). È il mistero di una vocazione alla vita di stretta unione con Dio che si manifesta fin dai teneri anni della vita del Santo, ma che è anche parte essenziale della professione cristiana battesimale: tutti i credenti sono fondamentalmente chiamati alla vita di unione con Dio nei vari stadi di vita. Quello della consacrazione sacerdotale e religiosa è lo stadio sublime.

Sempre nella stessa Autobiografia sono evidenziati gli altri ingredienti della spiritualità celestiniana. L’inestinguibile anelito a servire Dio nella via dell’eremo solitario; l’uscita dalla propria terra per cercare il Signore; il superamento delle tentazioni carnali, tra le quali quelle della fuga dal proposito assunto, della nostalgia e del mammismo diremmo in buona sintesi (ciò che farà tornare indietro il suo compagno di viaggio), oltre a quelle della superbia e della lussuria, tanto da sveglio quanto nel sonno; le delizie spirituali del conforto divino; la lotta ascetica e le insidie di una malintesa solitudine ed umiltà che rischia di mutarsi in chiusura a Dio o in chiusura agli altri; l’accettazione del calvario della volontà di Dio, specie nell’ultimo periodo della sua vita di illustre recluso-prigioniero, quando la ricerca di Dio nella solitudine e l’unione con Lui sono cresciute a dismisura.

L’Autobiografia mostra chiaramente questo crescendo spirituale del Nostro, prima dicendo come Pietro anhelabat a servire Dio nella solitudine dell’ eremo, poi dicendo come egli, mano a mano che la battaglia dello spirito infuocava, ricercava la solitudine quaerebat semper solitudinem, e finalmente come era struggente il desiderio per essa: cupiebat semper solitudinem et paupertatem.

Unico suo conforto fu solo e sempre nel Signore, secondo la lezione ricevuta dalla madre: “confortare in Domino”, gli aveva insegnato questa nella serenità e semplicità delle mura domestiche.

Ed egli sempre si mostrerà tale, cioè confortatus in Domino. Dalla profonda vita in Dio verranno le sue opere. Tutto di Dio e tutto per gli uomini.

Così fu la vita di Pietro del Morrone, che fu papa Celestino V.

Di qui il rinnovamento non solo della vita monastica, ma della vita della Cristianità e della Chiesa del suo tempo.

A noi del terzo millennio cristiano, non meno bisognosi di riforma e di conversione, si ripropongono così le stesse domande iniziali: primato del fare e dell’apparire? O primato dell’essere e dell’esserci? O primato dell’Amore?

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