
Veduta monte Morrone

Eremo di Santa Croce che troviamo nominato già dal 1268 nei “Regesti Celestini” di Ludovico Zanotti
<<Fin dai miei primi studi restai sempre meravigliato come la memoria di questo Santo fosse comunemente così trascurata; avendo poi diligentemente considerato la grandezza delle sue sante azioni sono restato sopraffatto per questa universale trascurazione tanto da applicare l’animo e lo studio con maggior attenzione.>> Lelio Marini-Vita e miracoli San Pietro del Morrone.
San Pietro Damiani verrebbe sicuramente ricordato come raro esempio di rinuncia a onori ecclesiastici (era cardinale), se il suo gesto non fosse stato oscurato dalla decisione di un altro Pietro, romano pontefice con il nome di Celestino V.
Egli, deposta la carica pontificale come fosse un micidiale fardello, ritornò all’antica solitudine così volentieri che l’avresti detto liberato dai ceppi del nemico.
Ciascuno è libero di attribuire a “viltà d’animo” questo gesto del solitario e santo padre: è lecito infatti, per la diversità dei temperamenti, nutrire opinioni non solo differenti, bensì opposte sul medesimo argomento. Io comunque lo giudico più di ogni altro utile a se stesso e al mondo.
Quella carica così elevata poteva essere pericolosa e piena d’inquietudine per entrambi; Pietro era infatti inesperto delle cose umane, che aveva trascurato per l’assidua contemplazione di quelle divine e per l’attaccamento alla solitudine.
Come Cristo accolse il suo gesto ci è rivelato dal miracolo che Dio realizzò attraverso di lui il giorno immediatamente successivo alla rinuncia: cosa che non sarebbe sicuramente avvenuta, se Dio non avesse approvato ciò che egli aveva fatto. Io insomma credo che egli abbia agito assai nobilmente, da uomo d’animo libero, ignaro di imposizioni e davvero divino, e sono di questa opinione: un uomo non avrebbe potuto compiere un tale gesto se non avesse attribuito il giusto valore alle cose umane e non avesse calpestato il capo orgoglioso della fortuna.
Ricorriamo qui all’aiuto di Ambrogio che ci proviene in particolare da quel libro in cui esorta la vergine Demetriade alla santa osservanza della vera umiltà: «Non è segno d’animo pavido o fiacco, come pensano coloro che amano questo mondo, disprezzare le ricchezze terrene, disdegnare gli onori effimeri e non cercare la gloria là dove il peccatore è lodato per i desideri del suo animo e chi fa del male viene esaltato; se si comprendesse bene da dove nasce, a che cosa tende, quali sono le mete che si prefigge questo disprezzo delle cose presenti, non si troverebbe nulla di più giusto, nulla di più nobile di siffatti spiriti. Essi con i loro santissimi desideri trascendono tutte le cose e non aspirano ad alcuna creatura, per quanto potente e stupenda, ma al Creatore stesso di tutte le cose visibili e invisibili: avvicinarsi a Lui significa illuminarsi, temerLo significa provare gioia, servirLo significa regnare».
Chi mai sulla terra più di Celestino fu degno di ricevere un simile elogio? Alcuni lasciarono le loro barche e le reti, altri i loro piccoli poderi, altri il banco del gabelliere, alcuni addirittura il regno o la speranza di un regno, seguirono Cristo come loro signore e divennero apostoli, divennero santi e amici di Dio; chi mai però rifiutò con spirito così nobile ed elevato come Celestino il papato, soprattutto da quando assunse tanta importanza?
Non esiste carica più alta ed è traguardo tanto ambito e straordinario che – a quanto si dice – il suo nome deriva dallo stupore e dall’ammirazione. Ma Celestino desiderava l’antico suo nome e il luogo in cui era vissuto e la povertà amica dei buoni costumi e volgendosi al cielo dimenticò la terra.
Chi abbia letto la sua vita meravigliosa, degna di un’altra penna, non può non accorgersi che egli, in qualunque condizione, fu sempre ugualmente caro a Dio: essa è divisa in tre parti, che contengono rispettivamente ciò che fece prima, durante e dopo il pontificato.
Che c’è da meravigliarsi, allora, se non mancò pregio alle sue opere, dal momento che il suo animo conobbe un’unica disposizione e, finché fu possibile, la sua vita non subì alcun cambiamento?
Al culmine della sua potenza, nell’augusto palazzo dei papi, pensando all’angusta stanzuccia da eremita, visse da uomo umile al potere, da solitario tra la folla, da povero tra le ricchezze. Si aggiunga che, appena eletto, tentò di fuggire con un suo discepolo allora giovane, Roberto da Salle, ma, improvvisamente circondato dalla folla quando meno se lo aspettava, non avendo più alcuna via di scampo, rivoltosi al discepolo gli chiese se volesse seguirlo ora che era trascinato e costretto alla massima carica.
Ma quello, che dal maestro aveva appreso a disprezzare il mondo e ad amare Cristo e ciò attraverso cui ci si avvicina a Cristo, vale a dire virtù, pace, silenzio e solitudine, rispose: «Ti prego di risparmiarmi fatiche e pericoli e di volermi come successore di una povera cella e di una sicura tranquillità, piuttosto che come compartecipe di una gloria sfarzosa e inquieta».
E così avvenne. Egli infatti si fermò, mentre il padre se ne andava a Roma. Si racconta che. non molto tempo dopo egli vide l’anima di Celestino uscire dalla sua duplice prigione e salire alla sua dimora siderea e, non comprendendo la cosa, stupito del prodigio, gli chIese se anche allora gli ordinava di seguirlo o di fare qualcos’altro. Quello lo esortò a perseverare nella solitudine e, mentre ancora risuonavano le sue parole, sparì alla volta del cielo. Quel discepolo, memore dell’ammonimento, visse fino ai tempi nostri e, pochi anni or sono, vecchissimo seguì il maestro, lasciando ai suoi una grande fama di santità e la gloria di opere mirabili.
Ma ritorno a Celestino: la sua felice e spontanea discesa rivelò quanto triste fosse stata la sua ascesa e quanto contraria ai suoi desideri.
Da persone che lo videro udii raccontare che egli fuggì con grande gioia, portando negli occhi e sul volto i segni della letizia spirituale quando, restituito finalmente a se stesso e libero, si allontanò dal potere pontificale, come se avesse sottratto non le spalle a un peso modesto, bensì il collo a una terribile scure, sicché risplendeva sul suo viso un non so che di angelico. E non a torto: sapeva infatti a che cosa ritornava e non ignorava che cosa stava lasciando. Dai travagli ritornava sicuramente alla quiete, dalle folli discussioni ai colloqui con Dio, abbandonava la città, andava con lo spirito e, se l’astuzia del suo successore non glielo avesse impedito, con le gambe su una montagna aspra – lo ammetto – e dirupata, ma donde il cammino verso il cielo sarebbe stato per lui agevole.
Oh se fossimo vissuti insieme a lui! Fra tanti solitari con lui solo particolarmente avrei desiderato vivere, poiché in nessun caso il mio desiderio è stato più vicino alla cosa desiderata. Non è molto infatti il tempo che ci divide: bastava che egli attendesse un poco o che noi un poco ci affrettassimo per percorrere di pari passo il cammino di questa vita che egli invece percorse con i nostri padri.
E, in così breve spazio di tempo, quanti furono i conventi del sacro ordine da lui fondato che sorsero in tutto il territorio dell’Italia fino alle Alpi! E ormai, a quanto sento dire, questa devozione, propagatasi, ha superato anche le Alpi. La sua eredità religiosa perdura e perdurerà e vivono i figli che generò in solitudine, mentre quelli nati nel palazzo e quelli cui egli conferì l’alto titolo di cardinali della Chiesa o altre cariche sono già morti da tempo: tanto più solide sono le fondamenta della santa solitudine di quelle della vita mondana.
Lo deridano pure quindi quelli che lo hanno visto: per loro il dimesso spregiatore delle ricchezze e la sua santa povertà valevano poco dinnanzi allo splendore dell’oro e della porpora. Ma a noi sia lecito ammirare quest’uomo, annoverarlo tra i pochissimi e considerare una sventura il fatto di non averlo conosciuto, perché l’averlo davanti agli occhi sarebbe stato un grande guadagno e avrebbe potuto fornire un illustrissimo esempio a coloro che affrontano le asperità di una vita più elevata.
D’altronde la sua attuale fama e la glorificazione del suo nome danno forza a coloro che lo lodano e svelano la falsità delle accuse dei suoi insolenti detrattori. Ma, grazie a Dio, siamo diventati così magnanimi da sperare che questi due Pietri rimangano senza imitatori e che nel nostro tempo non ci siano esempi di una simile pusillanimità.
Francesco Petrarca, De Vita solitaria,
Traduzione di Guido Martellotti.
Oscar Mondadori, Milano 1992, pp. 396
Il testo che qui riportiamo, riguardante Fra’ Pietro/Celestino V è alle pagine 218-227.